Ci stiamo dunque rendendo conto che la Chiesa non può fare a meno dell’arte. D’altra parte, sembra che ci siano ancora diversi fraintendimenti su “quale arte”. Si può tracciare qualche criterio per dire che cosa è e che cosa non è un’arte per la Chiesa?
Direi che intanto possiamo tracciare qualche distinzione nell’uso dei termini. Una cosa è l’arte in generale, cioè, come dicevamo prima, quell’espressione dell’uomo che suscita la meraviglia, lo stupore, che dilata il cuore e vi versa la speranza, che fa percepire il vero e il bene come bellezza, come fascino, come un mondo già salvato, un mondo attraente.
Poi c’è un’arte che con i suoi contenuti vuole suscitare delle mozioni, delle esperienze, delle partecipazioni intime a un mondo spirituale, religioso nel senso generale, cioè qualcosa che mira verso l’orizzonte della spiritualità. È quella che potremmo chiamare “arte religiosa”.
E poi c’è un’arte — che qualcuno chiama arte sacra e qualcun altro arte liturgica, arte per la liturgia, per lo spazio liturgico – che fa parte della liturgia stessa e per questo è un’espressione della fede della Chiesa, dove la verità e il bene sono assolutamente personalizzati, perché rivelati nella persona di Gesù Cristo, e dove quindi la bellezza diventa apertamente cristologica, dove avviene una trasfigurazione dell’umano. Perciò qui c’è una dimensione di epiklésis, dell’invocazione della discesa e dell’azione dello Spirito Santo, che agisce tramite la Chiesa come prolungamento dell’opera della redenzione in Cristo. L’arte liturgica non è un’arte orgogliosa che si innalza sopra le altre, ma è un’arte che testimonia la misericordia di Dio.
Quest’arte esprime nelle forme arti-stiche l’oggettività del Credo della Chiesa. E lo esprime come bellezza, come una specie di identità della Chiesa stessa. In che senso? La bellezza, dicevamo, è la carne del vero e del bene. Ora, se il vero e il bene si rivelano come Gesù Cristo, la carne di questo vero e bene siamo anche noi, la Chiesa, suo Corpo. Allora c’è un’ecclesialità nell’arte liturgica che supera l’arte nel senso generale. E supera anche l’arte semplicemente religiosa, spirituale, che, se suscita devozione, sentimento, tuttavia non contribuisce alla partecipazione all’evento con cui io sono messo in comunione. Quest’arte è considerata parte integrante della liturgia. Fa talmente parte della liturgia che, anche quando la liturgia non è in atto, l’arte continua a rivelare e rendere presente in quello spazio lo stesso Mistero che si è celebrato nella liturgia.
Per che cosa si distingue quest’arte? È un’arte che non può dipingere o scolpire qualsiasi cosa, ma solo ciò che fa parte di questo spazio ecclesiale, che è lo spazio dell’umanità trasfigurata in Cristo. Non è detto che quest’arte susciti ammirazione, piuttosto suscita devozione, venerazione. Davanti all’arte in genere, se è arte, io rimango meravigliato.
Davanti all’arte sacra invece mi inchino, mi inginocchio, mi segno con la croce, mi metto la mano sul petto e dico: “Santo, santo, santo sei tu, Signore”. La verifica più seria se l’arte presente in uno spazio ecclesiale è adatta a quel luogo è quella se lì la comunità cristiana
prega, se davanti ad essa le persone percepiscono il mistero, la presenza di Cristo come Signore e Redentore… Quest’arte, infatti, evoca una presenza, rivela una Persona, la indica.
Questo è lo scopo dell’arte sacra. Non si tratta solo di creare uno spazio dove io mi concentro e vivo una pacificazione, ma lo scopo è l’incontro con il nostro Signore e Salvatore.
Detto ciò, è evidente che non ogni arte può entrare a far parte dello spazio liturgico. La liturgia celebra il mondo trasfigurato e perciò nessuna cosa può entrarvi allo stesso modo in cui si trova fuori. Quando nella liturgia bizantina al momento del piccolo ingresso il
diacono proclama “Le porte, le porte!”, che un tempo era l’invito per i catecumeni ad uscire, è un segno che il battesimo costituisce la frontiera tra la comunità eucaristica e il mondo, non nel senso di una separazione dalla creazione, ma di una crisi all’interno della creazione per la salvezza del mondo, come sottolinea bene Zizioulas. L’Eucaristia deve far vedere il mondo alla luce dell’ottavo giorno. È questa la sua missione. Perciò deve custodire gelosamente le “porte chiuse” fino alla venuta del Signore, questa partecipazione al mondo trasfigurato e questa capacità di farlo vedere. È chiaro allora perché nella chiesa possono entrare solo le cose trasfigurate.
Tutto ciò che sta nella Chiesa è per la liturgia, nessuna cosa sta lì per affermare se stessa, ma è in funzione di ciò che lì si celebra e che ha lo scopo di custodire questo anticipo del mondo trasfigurato, della vita del regno, di cui la liturgia ci rende partecipi e che costituisce anche il
punto di partenza della missione. Se la Chiesa, infatti, non avesse l’esperienza della salvezza, del mondo nel suo stato definitivo, di come è in Dio, che cosa avrebbe da testimoniare al mondo?
Ma questo non significa in qualche modo anche una “regola di essenzialità” dell’arte liturgica?
Sì. Se non si rispetta questo semplice dato della fede che nella liturgia troviamo il mondo trasfigurato, si ostacola la forza e la vitalità del sacramento che agisce nella sua semplicità, essenzialità, quella semplicità ed essenzialità che hanno caratterizzato l’evento e la Persona di
Cristo dalla sua nascita e per tutta la vita, soprattutto nella Pasqua. Tutte le decorazioni mondane ricamate intorno alla liturgia aumentano la distanza con la Pasqua di Cristo e con la vera vita che si consuma e si trasfigura nell’amore che lo Spirito Santo versa nei nostri cuori.
L’arte che abita la chiesa non può dunque essere un’arte che ha lo scopo semplicemente di decorare lo spazio, ma un’arte che rende leggibile l’evento che vi si celebra e che ne è l’identità.
Non può essere neanche un’arte scenografica, poiché la vera scenografia del sacramento e della liturgia è l’uomo stesso, l’umanità con tutta la sua storia, con tutto ciò che è l’uomo nella sua unione con Dio. Non può essere neanche un’arte che esprime un uomo ideale, classico,
oscurando così il fatto che la salvezza viene per ciascuno, e non per qualche superdotato. Se invece una persona umiliata, ma consumata nella carità, in qualsiasi angolo sperduto del mondo viene aiutata nella lettura espe-rienziale-razionale della salvezza che la raggiunge, allora quell’arte è autorizzata ad essere presente dove si celebra la liturgia, perché significa che è già segnata dalla liturgia. I criteri sono dunque abbastanza ovvi: il primato della divinoumanità, l’umiltà del linguaggio, la discrezione del corpo e del vestito per non affermare l’uomo solo nella sua individualità, ma piuttosto nel suo relazionarsi a Dio, una luce che traspare attraverso tutti i colori e che crea con le linee e le forme una tuttunità. Un’arte così rivela quella vita nello Spirito che abita l’umanità della Chiesa come Corpo di Cristo.
È evidente quindi che l’arte non può ritornare direttamente dalla galleria nelle chiese. È curioso vedere che, più danno le committenze per gli spazi liturgici ai grandi artisti, più la gente si rifugia in un’arte estremamente povera ~ non per cattivo gusto, questo sarebbe un
giudizio pesante — ma perché chi prega percepisce che cosa gli giova, che cosa favorisce l’incontro con Dio e che cosa no.
Prima di entrare in chiesa, l’arte dovrebbe vivere un passaggio, una purificazione, una trasfigurazione. Ma come si entra nella Chiesa? Ritorniamo sempre lì: attraverso il battesimo. Allora, anche l’arte deve essere battezzata? Eh, sì, deve proprio essere battezzata!
Ed essere battezzati significa morire per risuscitare ad una vita nuova. Tutti noi entriamo nella Chiesa attraverso la morte, come vivi tornati dai morti. Non si entra nella Chiesa con un biglietto d’ingresso, né per diritto, ma in punta dei piedi, umilmente.
Anche Evdokimov era chiaro su questo punto, precisando che l’arte deve scegliere tra vivere per morire o morire per
vivere…
Proprio così. Poi, una volta chiarito questo, va detto che anche quest’arte – che è entrata in Chiesa in questo modo “battesimale” e che fa parte della liturgia che vi si celebra — ha due dimensioni, proprio come la liturgia. C’è una dimensione assolutamente oggettiva – perché
nella liturgia celebriamo Cristo come è veramente, non come lo vorrei io – e una dimensione soggettiva, che dice come io vivo Cristo in questa liturgia. Faccio un esempio: quando preghiamo il Padre nostro, si tratta di una preghiera che non abbiamo inventato noi, eppure ognuno di noi si rivolge al Padre in un modo totalmente personale. Così è anche con l’arte liturgica: c’è qualcosa che appartiene totalmente a Cristo, alla Chiesa, al mondo trasfigurato in Cristo, e c’è qualcosa di nostro, perché ogni epoca e ogni luogo ha un certo gusto, qualcosa
che ci accomuna al nostro tempo. Proprio da questo equilibrio tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo nasce l’arte sacra. Il modo di trattare lo spazio, la figura, il colore, la materia… in questo ci possono essere tanti risultati delle avanguardie del XX secolo… Ma la dimensione oggettiva non la posso inventare, la devo attingere dalla Chiesa: dai suoi sacramenti, dalla sua tradizione, dalla sua memoria. E proprio in questa cucitura organica tra il contenuto oggettivo e il dato culturale che io porto con me in quanto figlio di un tempo e di un contesto preciso, come direbbero i russi, contribuisco alla “ecclesializzazione della cultura”. Allora la cultura non entra più come un frammento grezzo nello spazio ecclesiale, e non si giustappongono in un modo immediato e meccanico linguaggi e stili della cultura da una parte e dall’altra dei contenuti “sacri”. Ma la cultura e i tratti specifici che può assumere nei diversi periodi storici, collocata tramite questa acquisizione organica nello spazio abitato dalla Trinità, dalla comunione, “sacramentalizzata” nella misura in cui si esprime in gesti e in parole di comunione, diventa anche la rivelazione di ciò che nel deposito della fede non eravamo ancora riusciti a scorgere, la manifestazione del Corpo di Cristo nascosto nella storia e che progressivamente si fa vedere da lati diversi.
Attìngere alla tradizione per nutrire la fede oggi: forse questo è uno dei doni più preziosi che ti ha e ci ha lasciato in
eredità padre Spidlik…
Padre Spidlik non mi ha mai detto questo esplicitamente, ma mi ha guidato – anche col proprio esempio – in modo tale da farmi mettere in ascolto della Memoria, della grande Sapienza di Cristo che parla attraverso i tesori della Chiesa, per imparare pian piano un linguaggio suggerito dallo Spirito. Così la mia ricerca si è concentrata su quello spazio essenziale che è il rapporto tra l’uomo e Dio. Da un lato, nel ministero pastorale, mi sono sempre più dedicato agli esercizi spirituali, che mi spronano a procurare continuamente il nutrimento
spirituale per le persone, per aiutarle ad incontrasi con il Redentore e a rimanere con Lui.
Questo incontro non avviene a livello individuale, ma personale. E, quando dico personale, dico comunionale, perché la persona si realizza in comunione con gli altri. Perciò lavorare all’incontro tra la persona e Dio significa lavorare sul registro dell’ecclesialità.
Dall’altro lato mi sono trovato impegnato nell’arte degli spazi liturgici, e con il tempo mi è sempre stato più chiaro che c’è un nesso organico indissolubile tra il cammino spirituale di ogni persona, intimo e del tutto irripetibile, e la liturgia della Chiesa come Corpo di Cristo.
Mi sembra che il nucleo di tutto stia proprio nel curare la fede delle persone, cioè della Chiesa. Altrimenti tutti gli altri sforzi saranno vani, perché mancherà la vita vissuta come Corpo di Cristo, come manifestazione di Cristo. Se c’è un impegno forte per la fede, quindi per
l’incontro tra Dio e l’uomo, questo garantisce l’ampiezza anche a tutte le altre dimensioni umane.
Come nell’arte: se nello spazio dove la Chiesa vive la liturgia c’è un’arte che esprime visivamente ciò che vi accade, che ci orienta a quanto vi si celebra e ci aiuta a purificare i nostri sensi e la nostra intelligenza, allora sapremo gustare anche qualsiasi altra arte, in tutti i luoghi dove la troveremo.
L’arte per la liturgia è un tutt’uno con la liturgia. Perciò è un’arte essenziale, libera dai dettagli, priva di un immaginario troppo realistico. E quindi un’arte con una figurazione spoglia, semplice, ma profondamente curata, dove le linee sono tracciate con obbedienza alla verità, con
un’ascesi di sobrietà, dove i colori sono puri e la materia è illuminata da di dentro. E siccome i nostri sensi sono abituati a cercare le cose piacevoli di cui godere, un’arte del genere si presenta con un aspetto “quaresimale”, come qualcosa che magari a prima vista può anche non piacere.
Ma, frequentandola, proprio attraverso il digiuno, i sensi cominciano a gustare le cose più purificate, più raffinate. L’arte liturgica deve seguire in tutto il percorso del linguaggio liturgico, che è quello della preghiera. I principianti nella preghiera pensano di essere esauditi
per la moltitudine o la ricercatezza delle parole o per la loro formulazione poetica, ma più si matura nella vita spirituale, più ci si purifica, e più rimane l’essenziale. È lo stesso anche nella vita della persona. Da giovani abbiamo gli occhi spalancati su tutto e si vedono tanti dettagli, si viene attratti da tutto e tutto ci sembra importante. Ma, man mano che si invecchia, gli occhi cominciano a socchiudersi e vedono solo l’essenziale, solo ciò che è veramente importante.
Così l’arte liturgica, se elabora un dettaglio – sia nel gesto, che nel vestito o in un oggetto – lo fa solo perché questo dettaglio fa parte dell’essenziale e non si tratta di un di più. In questo modo il fedele comincia a leggere spiritualmente l’arte, le immagini, dunque anche la vita. Come diceva tante volte padre Spidlìk, si tratta di una cosa che oggi è particolarmente difficile, ma anche straordinariamente urgente. Siamo in un contesto segnato da un’inflazione di immagini, anche nelle sue forme digitali, fortemente sensoriali e sensuali, ma è sbagliato pensare, come fanno alcuni, che tutto questo inevitabilmente porterà alla saturazione, e poi desidereremo il vuoto. Come se il vuoto potesse purificarci! Il vuoto può solo riposare l’immaginario perché sia di nuovo un cestino disponibile per qualsiasi immondizia… Solo l’immagine spirituale purifica l’immagine passionale e sensuale e la sconfigge. Occorre allora molta vigilanza affinchè non entrino in chiesa immagini che possano prestarsi ad essere cibo per un immaginario sensuale o siano caratterizzate da un estetismo di stampo classico, perché ciò che accade nella liturgia è incompatibile con un’arte ideata per il palazzo, piuttosto che per la chiesa. Se noi, in nome dell’apertura e del dialogo con il mondo, mettiamo attorno all’altare un’arte qualsiasi, rischiarne di trasformare le chiese in gallerie, come purtroppo sta infatti spesso accadendo…
Tratto da:
N. GOVEKAR, Il rosso della piazza d’oro. Intervista a p. Marko Rupnik su arte, fede ed evangelizzazione, Lipa ed., pp.111-120.